Forza contro abilità: il paradosso del 21° secolo

Mi è capitato tra le mani qualche giorno fa l’ultimo numero di “Climb magazine”, storica ed autorevole rivista di arrampicata inglese. Frustrato dall’inattività forzata di questo interminabile maltempo, ho letteralmente “divorato” qualche articolo e ne ho tradotti due , parzialmente e con molta approssimazione.  Ve li  propongo, sperando di non incorrere nelle ire del copyright e, soprattutto, di qualche climber permaloso….Il primo porta la firma nienetemeno che di Steve McClure e ha un titolo di grande effetto: “Strenght vs Skill: The 21 st Century Paradox”.

Johnny Dawes aveva perfettamente ragione nella sua affermazione “negli anni 80 e 90 arrampicare significava trovare l’aderenza e risolvere sequenze. Al giorno d’oggi è diventato più pompare e stringere” . Per chi  non ha mai contato sulla forza, deve essere stato frustrante accorgersi come il fascino della potenza abbia messo in disparte la sottile arte della tecnica! E nell’ultima decade, sembra che tutto si sia trasformato in tirare e pompare, raccontando ovviamente a tutti come ti riesca bene.
Contando  su equilibrio, fluidità e sintonia con la roccia, Johnny creò alcune delle vie  più audaci e spregiudicate  della storia dell’arrampicata, facendo avanzare questo sport,  con  solo un piccolo apporto di ginnastica. Poi, improvvisamente, Johnny divenne troppo “vecchia scuola”, con la sua abilità a individuare la complessità e le soluzioni più efficienti tra posizioni del corpo anche un po’ stucchevoli, mimate alla base della parete, rispetto al rimbalzare tra forme dai colori sgargianti attaccate a pannelli di legno molto inclinati.

Non c’è dubbio che la scalata negli ultimi anni  si sia concentrata più sulla forza fisica che sull’abilità tecnica. In parte ciò è successo per l’espandersi di attività molto legate alla forza: il bouldering, le gare, la predilezione per gli strapiombi: che hanno bisogno di più che della semplice tecnica, e sono più popolari. La popolarità aumenta il fascino, e il fascino è dato anche dalla bellezza, e la bellezza oggi è bicipiti grossi e addominali a tartaruga.

Tempo fa mi stavo allenando per migliorare la forza e la potenza. L’intenzione, ovviamente, era di fare vie più dure e, anche, di poterne parlare con qualcuno. Un giovane scalatore mi aveva sconvolto con trazioni monobraccio e sezioni di 30 secondi al pan gullich. Era uno dei climbers  con più forza che avessi  mai visto e le mie sedute di allenamento, invece, evidentemente inadeguate.  Se mi avessero riconosciuto, mi chiesi come avrebbero fatto a  far concordare  il mio livello di scalata su roccia  con una quasi assoluta mancanza di forza. Poi lo sentii  parlare dei suoi migliori tentativi su dei 6c e sull’intenzione di provare un 7a quanto prima. A me sembrava impossibile che uno con tanta forza potesse cadere su qualcosa di meno duro che un 8a!. Ma questo è il grande mistero dell’arrampicata odierna e non finisce mai di affascinarmi e stupirmi….

…la forza pura è importante, ma non più della “arcuata” o della pliometria, ma anche questi due fattori cruciali non ti  trasportano automaticamente  a gradi “epici” , come dimostrato dalle orde di supereroi del pan gullich che strisciano  poco oltre le vie di riscaldamento.
Così torniamo alla questione più incerta: perché mai allenandoci  sempre di più non diventiamo automaticamente  dei climbers migliori?

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Nic Sellars vi mostra cosa serve per avere successo su questa lacca “old style”: tecnica, piedi e testa!

Avere “più forza” non è l’ultima novità. Ma in passato l’obiettivo principale è stato migliorare la performance  allenandosi anche sulla roccia, con ripetute o circuiti di boulder. Essere più forti era importante, ma ancor più lo era chiudere i tiri! Dal 1980 al ’90 ci fù un’esplosione delle prestazioni:Ben Moon, Jerry Moffat, John Donne e Malc Smith segnarono i limiti, e questi limiti almeno in Gran Bretagna sono rimasti  quasi gli stessi; il numero di scalatori forti è aumentato di molto ma i limiti sono cresciuti di poco. Vie come Hubble, Mutation, Northern lights, Overshadow e The Big Bang non sono certo frequentate, alcune hanno una sola o nessuna ripetizione….è stato raggiunto il tetto della prestazione? Non credo.

…ma allora se non  solo di allenarsi e pompare, di cosa abbiamo bisogno?

Sembra ci sia una regola per le attività  che coinvolgono il movimento del corpo, che stabilisce che si deve avere un background di almeno 10.000 ore di pratica per essere considerati dei “maestri”. Visto che ben pochi possono essere considerati tali, non si può che cercare di migliorare. Puntando innanzitutto l’attenzione sui lati deboli, ad esempio tenacia, controllo della paura, flessibilità, abilità dei piedi, capacità di lettura della roccia, ritmo e fluidità, solo per menzionarne alcuni.
E’ bene ricordarsi che per la gran maggioranza dei climbers – inclusi molti top – la forza non è l’anello debole della catena. Tecnica scarsa, paura di volare, paura di fallire e carenza  di ritmo sono più probabilmente in causa. Prima risolveteli ,  poi ricominciate ad allenarvi…..

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Nel video “The Quarryman” , monumento di Johnny Dawes al potere della tecnica

~ di calcarea su febbraio 22, 2014.

8 Risposte to “Forza contro abilità: il paradosso del 21° secolo”

  1. McClure su The Quarryman:
    ” I’ve climbed 8c in shorter time and with less effort! “

  2. Belle considerazioni.. Anche se frequento poco oramai “l’ambiente” ho avuto modo di conoscere un personaggio che in meno di 2 anni dal nulla ha fatto vari 7c “di forza”… Poi a Illegio un giorno, vergognandomi della richiesta e dei miei potenziali ridicoli al confronto, ho arrampicato con lui su una vietta in placca attorno al 6a… Beh, ci avrà messo 30 minuti a chiuderla e con parecchie soste! 🙂

  3. bell’articolo. le cose più utili son quelle più difficili da conquistare (tenacia, controllo paura, ritmo..)

  4. http://www.climbook.com/articoli/881-nuova-tecnica-avanzata-capitolo-2

    praticamente identico! Non sarà che Jolly ha telefonato a Mc Clure o è il contrario? Ah ah Comunque i giovinastri sono incazzati neri, prima gli dici che devono attaccarsi al pan gullich, poi dici che forse non è così e che lo devono tenere lontano per un mese, insomma non ci sono più punti di rifermento, non c’è più religione, Calcarea dacci un dio in cui credere! 🙂

  5. Spezziamo una lancia in favore di qullo che vorrebbe provare il 7a! ovvio che su due cose che fai (roccia e pan pivot) sarebbe auspicabile ottenere buoni risultati in entrambi, e se non riesci in entrambi almeno in una altrimenti siamo a livelli di scarsità incalcolabili! perchè come dice il verza al Lignano poi……….

    Dall’articolo e dai commenti deduco che per scalare su uno strapiombo quasi non serva la tecnica ma più che altro la forza infatti mi capita spesso di vedere gente che non si schioda da un muro leggermente strapiombante ma mica per la forza perchè no ci ha capito un acca di che posizione sia più conveniente e risparmiosa (in termini di forza ovviamente) assumere in quel momento e ciò vale dall’ appoggiato allo strapiombo! e credo si tratti di usare la tecnica se non sbaglio!
    Leggere per credere
    http://www.8a.nu/?IncPage=http%3A//www.8a.nu/forum/ViewForumThread.aspx%3FObjectId%3D25973%26ObjectClass%3DCLS_UserNewsComment%26CountryCode%3DARG
    Alcuni tra cui il web master inorridiranno perchè ho citato un garista e che la coppa del mondo non è di sicuro placca estrema e neanche roccia ma lui (non il webmaster) va su comunque (letto l’articolo del link) e se proprio volete documentatevi sulle sue perfomance rocciose. Documentati?

  6. […] https://calcarea.wordpress.com/2014/02/22/forza-contro-abilita-il-paradosso-del-21-secolo/ […]

  7. Per acquistare abilità perdendo fiducia nella sola forza e ritornando al ritmo ed al respiro, all’occhio ed all’intuito, all’equilibrio e ai piedi, torna decisamente utile farsi male. Parlo per esperienza. Seguite dunque il mio consiglio spassionato: procuratevi una bella epicondilite (od epitrocleite), e vedrete!

    Scherzi a parte, non ho mai capito dove si voglia andare a parare quando si confrontano gli stili, le pratiche, le mode. Sarebbe bello che l’analisi della verticale diventasse (o quantomeno si sposasse alla) critica sociale. Se “la bellezza oggi è bicipiti grossi e addominali a tartaruga”, un motivo ci deve pur essere. La bellezza, oltre ad esser soggettiva, si ritrova oggettivamente sia in placca sia in strapiombo. Può dunque il paradosso ridursi al contrasto fra l’allenamento e la sua utilità? E’ davvero questo “il grande mistero dell’arrampicata odierna”? Riconosco d’esser stato io stesso incapace a trasferire sulla roccia gli immensi ed eccessivi sforzi prodotti sui primi pannelli, ma la semplice domanda “perché mai allenandoci sempre di più non diventiamo automaticamente dei climbers migliori?” è stanca, pur risultando sempre necessaria. E’ evidente che la scalata sia o nasconda anche molto altro al di là del binomio allenamento-prestazione, ma chi glielo spiega ai parvenu?

    Jolly mi sembra forse fra i pochi ad ammettere con chiarezza e spirito tanto provocatorio quanto autocritico che se oggi tutti tirano è anche perchè più di ieri gli si dice di tirare; ottenendo così una confusione ed una perdita di consapevolezza che contribuiscono a tratteggiare quella che lui definisce, se non erro, “scalata post romantica”, e che occorrerebbe chiamare con più precisione: consumistica. Siamo infatti nell’epoca del tutto-e-subito, che ha però ben poco a che fare con le rivendicazioni del ’68. Quel che si vuol raggiungere è spesso un traguardo che non implica di per sè neppure un miglioramento individuale, e la massificazione di questa spasmodica ricerca – che ricalca quella al successo, al denaro od al sesso facili, tipiche della nostra frenetica, frustrata e frustrante società – rischia di annullare altre possibilità interpretative dell’attività, e di ridurci a fare senza ben sapere quel che stiamo facendo; semplicemente perchè…è così che si fa, perciò è così che ci piace fare, e tanto ci basta.

    Dando per scontato che per acquistare esperienza servano tempo ed umiltà (non incolpiamo quindi i nuovi arrivati per il troppo vigore, semmai per l’eccessiva fretta), e che i gusti siano e restino gusti (ragion per cui ciascuno è giusto che scali un po’ dove e come gli pare), non sarà però un caso che le tre parole-chiave dell’entusiasta climber americano medio siano: cool!, steep! e big jugs! (tutte seguite da punto esclamativo), e che vi siano tentativi maldestri e fuori luogo di far apparire una scelta migliore d’un altra, fra l’altro proprio nel nome di una crescita individuale che ritengo in realtà più apparenza che sostanza (Andrew Bisharat, Sport Climbing vs Bolt Clipping http://eveningsends.com/2013/08/sport-climbing-vs-bolt-clipping/ ).
    Che vi sia un aspetto mentale rilevante è cosa stranota, anche se un noto climber-scrittore sostiene che sulla roccia “il corpo prende il sopravvento sulla testa, governa lui” (Erri De Luca, L’irrinunciabile bellezza dell’arrampicata http://www.planetmountain.com/News/shownews1.lasso?l=1&keyid=37734 ). Ma che sia o no l’arrampicata “the very embodiment of every meaningful struggle we’ll ever face in life”, non è chiaro il motivo per cui tale percorso formativo dovrebbe basarsi sulla battaglia di una rotpunkt (possibilmente in strapiombo) e non giungere attraverso quella di una on sight (magari in placca): di adattamenti diversi si tratta, così come di capacità diverse si ha bisogno nelle varie fasi ed occasioni della vita. Ma ci si può anche nascondere comodamente nella metafora non capendo granchè della vita reale. E si può fare dell’8 ed al contempo cascare sul 6: è la varietà delle situazioni a permetterci di riequilibrarci; si vince e si perde e c’è sempre da lottare e da imparare, l’importante è non raccontarsela e capire della scalata cosa si vuol fare, e se quel che vogliono renderla corrisponda all’idea che di essa ci è piaciuto conservare. Su questo secondo punto, a mio parere, soprattutto quelli che come Jolly hanno o sentono addosso una maggiore responsabilità dovrebbero lavorare. Il rischio è altrimenti che l’arrampicata, mentre discutiamo dell’utilità dell’avambraccio rispetto alla testa o ai piedi, ci sfugga di mano diventando da cosa nostra ad affare loro – un po’ come è stato del calcio, passato da sport popolare a grande affare televisivo. Con la differenza che, il nostro, sport vero e proprio non so quando lo sia mai stato e quando lo sia voluto diventare. Ah già, nell’85. E pensare che io lo avevo scelto – o meglio: me lo ero ritrovato appiccicato addosso – proprio in quanto privo di regole ed allenatori, tifoserie ed errori arbitrali.
    Ma chi ha trasformato la ricerca personale tramite l’allenamento in ricetta per la performance del weekend? Guai se diventassimo tutti sportivoni uguali!
    Tant’è, per il suo valore storico m’attira ancora la Caduta degli dei; ma m’inquieta un nome che ha più possibili interpretazioni, essendo la mia piuttosto profetico-apocalittica.
    Chi ricorda a Sportroccia quel passaggio risolutore di Edlinger, laddove gli altri strisciavano col ginocchio? S’i fosse forte, mi terrei; s’i fosse abile, lo stesso passerei.

  8. […] qui, da Calcarea, un mio commento-fiume ad un post-traduzione di un articolo sul moderno “paradosso” […]

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